Condannati a 12 anni in via definitiva i due Carabinieri che picchiarono a morte Stefano Cucchi

Finalmente giustizia è fatta per Stefano Cucchi. I Carabinieri che lo hanno pestato fino ad ammazzarlo sono stati condannati in via definitiva a 12 anni. Un risultato che attendevamo da tempo. Anch’io mi ero espressa in Aula con un intervento per chiarire questa incresciosa vicenda e tutti gli altri episodi simili.

In questi anni c’è stato qualcuno, anche fra gli esponenti politici, che su Stefano e la sua famiglia ha detto le peggiori nefandezze. La vergogna di una politica sacrilega, che calpesta i diritti e l’onore dei cittadini pur di difendere un’ideologia che ha evidentemente delle falle.

È altro che va difeso, in primo luogo Giustizia e Verità.

Caterina Licatini

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Dolce Vita Magazine:

13 anni dopo e un numero impressionante di udienze, accuse infamanti, perizie, testimonianze e sentenze nei vari gradi della giustizia, la Cassazione ha scritto il capitolo conclusivo di questa storia che ricalca proprio quel nostro primo titolo.

Alessio di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, i due carabinieri che nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 picchiarono selvaggiamente Stefano Cucchi causandogli lesioni fatali, sono stati condannati in via definitiva a 12 anni di carcere per omicidio preterintenzionale.

«Dedichiamo questa sentenza definitiva ai vari Tonelli, Salvini e a tutti gli altri iper garantisti che per un decennio hanno sostenuto che Stefano Cucchi era morto di suo, era morto per colpa propria» ha dichiarato l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo.

 

 

Senza possibilità di smentita, ora possiamo dire che Stefano non è morto perché “caduto dalle scale”. Non è morto nemmeno perché “tossicodipendente”. Non è morto tantomeno “perché magro, anoressico”.

«Ora possiamo dire che è stato ucciso di botte e che giustizia è stata fatta nei confronti di coloro che l’hanno portato via». Alla sorella Ilaria, che ha commentato a caldo la sentenza in questo modo, va il riconoscimento di non aver mai ceduto nella ricerca della verità e di aver così restituito dignità a tutte le altre vittime della divisa a cui giustizia è ancora negata, vittime di uno stato che non solo non ne ha saputo garantire l’incolumità ma in prima persona si è macchiato le mani col loro sangue.

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