Basta con la paura! C’è tutta una vita da vivere

Da Dolce Vita Magazine (link in fondo)

Gli storici distinguono due momenti conclusivi per le pandemie: la fine sanitaria e la fine sociale. La prima si verifica quando crollano l’incidenza e la mortalità dell’epidemia, la seconda succede quando sparisce la paura dovuta alla malattia stessa. Detto in altre parole, una pandemia può essere considerata conclusa quando effettivamente non ci sono più contagi o si è trovata una cura efficace, oppure – più semplicemente – quando la gente si è stancata di vivere nel panico del contagio ed ha accettato di convivere con i rischi di una malattia, mettendola sullo stesso piano di accettazione delle altre già esistenti. Può sorprendere, ma nella storia le pandemie effettivamente concluse per una reale fine sanitaria della malattia sono una rarità.

È successo per il vaiolo, che ha falcidiato l’umanità per secoli fino a che non è stato scoperto un vaccino efficace; è successo, in parte, per la peste che contrariamente da quanto crediamo esiste ancora in buona parte del mondo e provoca numerosi morti, ma la scoperta di un antibiotico efficace – e il netto miglioramento delle condizioni igenico-sanitarie – ne ha limitato decisamente la portata letale. Poi basta.

L’influenza spagnola – riscoperta in questi mesi per tracciare parallelismi con il Covid – falcidiò l’umanità sul finire della Prima Guerra Mondiale mietendo milioni di morti. Il mondo stava faticosamente uscendo da ben altra tragedia e le persone desideravano riprendere in mano la propria vita senza farsi condizionare da un nuovo incubo. La “spagnola” continuò nel silenzio generale a fare vittime per un paio di anni e poi iniziò a evolversi diventando una delle tante forme di influenza stagionale esistenti, che non causano morte se non in rari casi. Lo stesso vale per l’influenza di Honk Kong del 1968: almeno un milione di morti nel mondo, 100mila solo negli Usa. Il mondo non si fermò, la gente continuò a vivere, nel pieno dell’epidemia negli Stati Uniti venne addirittura organizzato il festival di Woodstock, uno dei più grandi casi di assembramento che la storia contemporanea ricordi. Anche questo virus è in giro ancora oggi come influenza stagionale, e quasi nessuno se ne ricorda più. Lo stesso vale per Ebola, il virus che senza nessun motivo i media trasformarono in paranoia globale nel 2014 e poi scomparso dai radar seppur ancora vivo, vegeto e fortemente letale nelle zone dove nascono focolai epidemici. Succede in Africa, quindi chi se ne frega.

Senza lanciarsi in valutazioni sanitarie ed epidemiologiche, né tantomeno in pronostici sull’evoluzione del Coronavirus (tutte discipline che già registrano sovrabbondanza di nuovi esperti perlopiù privi di curriculum) la questione è: quando e come arriverà la “fine sociale” di questa nuova pandemia? Fino a quando lasceremo che la paura di un ipotetico contagio fermi la quotidianità e tutte le sfaccettature della vita?

La storia è interamente costellata da guerre, epidemie, carestie e sciagure di varia natura. Si può dire che queste cose abbiano costantemente accompagnato l’avventura dell’uomo sulla Terra. Però, mai come in questi ultimi anni, la sola ipotesi che qualcosa del genere si verifichi in Occidente ci terrorizza e il più degli uomini pare disposto a rinunciare a fette sempre più cospicue di libertà in cambio della promessa di più sicurezza.

È successo con il terrorismo. Un manipolo di attacchi che in Europa hanno causato meno morti di quelli che gli incidenti stradali causano in una settimana sono stati sufficienti per varare leggi di emergenza, controlli sul web e nuove forme di sorveglianza urbana. Rischia di succedere ora con la pandemia. Media intruppati come in un regime hanno creato un clima pessimo, di una malsana e ingiustificata pesantezza.

Si poteva chiedere un livello di socialità attenta – certo – l’uso di mascherine dove serve – ok – di rispettare le regole sensate – per carità. Si poteva, magari, fare tutto questo senza considerare i cittadini un branco di minorati, senza indurre il panico: utilizzando i media per alimentare un dibattito razionale anziché per stroncare sul nascere ogni voce contro e per creare una cittadinanza sempre più intimorita e spaventata. Sarebbe stato bello no? Invece ci troviamo ancora di fronte all’ennesima prova di forza di un sistema che si basa sempre di più sull’utilizzo della paura come forma di controllo sociale e come grimaldello legislativo.

«Andrà tutto bene» si diceva nei primi mesi della pandemia, ma la verità è che per far sì che vada sul serio tutto bene, servirebbe che tutti, dal basso, rimettessero a fuoco il giusto ordine delle cose, iniziando a ricordare che siamo al mondo innanzitutto per essere felici. La vita per la quale si lotta è sempre stata molto più di questo. Si cerca una vita degna di essere vissuta, piena, possibilmente ricca di relazioni. E si spera di vivere in buona salute, certo, ma non è salute fare una vita da talpe, sacrificando tutto per non ammalarsi. Solo rimettendo al centro il desiderio di una vita che si basa sulla ricerca della felicità e non sulla paura si possono scardinare i timori esistenziali e quelli indotti da un sistema economico e sociale che utilizza la paura come olio per lubrificare ingranaggi ormai guasti.

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